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Fra Paoletti: Accoglienza, un nome della fede 

Per rinnovare la teologia dell’accoglienza 

Le nostre riflessioni sull’accoglienza ci spingono ad acquisire una consapevolezza sempre più chiara dell’essenza della fede cristiana, che consiste nella relazione tra l’uomo e il Dio di Gesù Cristo, e si invera nel rapporto accogliente dell’uomo con l’uomo. Il Dio del vangelo, infatti, si rivela attraverso il bisognoso (povero, straniero, nudo, affamato, prigioniero …) e il fatto di accoglierlo o respingerlo decide la qualità etico-relazionale dell’esistenza: «ero straniero e mi avete accolto». 

L’accoglienza del bisognoso - e ognuno è bisognoso - non è semplice ‘opera buona’, dettata dalla morale (non esclusivamente cristiana), ma occasione per vivere concretamente un rapporto personale con Gesù Cristo. «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40). È questa fede accogliente che incontriamo mirabilmente espressa nello stile del cristiano Francesco d’Assisi, la cui evangelicità continua a sorprenderci. 

In questa riflessione ci soffermiamo sull’accoglienza, cifra dell’humanum, che risplende nella fede cristiana. La sfida forse più radicale oggi è quella a «ri-formare il pensare» (Piero Coda), e ciò implica riscoprire che l’identità dell’essere umano è determinata dalla sua intrinseca intenzionalità ad altro da sé, nel conoscere e nell’amare. L’essere umano è tale essendo chiamato in libertà ad accogliere in sé l’altro in quanto altro, e a offrire sé all’altro in quanto altro. Solo in questa dinamica esodale proprio dell’accoglienza l’uomo diventa ciò che deve essere. 

Fa riflettere il modo in cui ci si è affidati, nei lunghi mesi di pandemia, a virologi ed epidemiologi, professionisti preparatissimi il cui sapere però non poteva prevedere alcun progetto, né orizzonte di senso verso il quale avviarci. Come è stato possibile essere occupati solo a leggere i dati dell’andamento epidemiologico, di settimana in settimana, senza compiere uno sforzo ulteriore per inventarsi altre forme e declinazioni di relazioni accoglienti? Si è fatto tanto e si è investito tanto, ma esclusivamente nel salvaguardare la salute fisica ed economica, trascurando la salute psichica delle persone e rimuovendo quella spirituale. Come mai non si è investito per scoprire un modello di accoglienza che tutelasse la vita nei suoi valori etici, civili, religiosi, senza ridurla alla sua essenza biologica?

La recente e non del tutto conclusa vicenda pandemica ci addita l’esigenza di scoprire una rinnovata forma di accoglienza: grembo della vita che si fa relazione-comunione, e quindi espressione della fede. La nostra identità è relazione, accoglienza data e ricevuta. In realtà non c’è vita se non siamo accolti dall’amore: siamo ‘ospiti’ della vita, ma senza sapere perché siamo nati. E non si sopravvive se non si impara ad essere accolti e ad accogliere. Ecco perché l’accoglienza esige la reciprocità, che non significa simultaneità: certo uno dei due ‘poli’ umani può prendere l’iniziativa dell’accoglienza, ma senza la risposta dell’altra parte non si ha accoglienza, solo un impulso buono. 

Accogliere significa lasciare la “regola” ogni volta che è in contraddizione con l’amore, perché il Vangelo dell’amore è per noi unica regola. Più che un tema fra gli altri, l’accoglienza è una prospettiva teologica e culturale, che oggi acquista un’urgenza assoluta. Noi cristiani viventi in un cambiamento d’epoca, abbiamo la responsabilità di elaborare un paradigma teologico nuovo: una teologia dell’accoglienza, come rifulge a tutto tondo in Francesco d’Assisi con analogie e differenze.

La teologia dell’accoglienza, intesa come metodo interpretativo della realtà, adotta il discernimento e il dialogo sincero, e ha bisogno di teologi che sappiano lavorare insieme in forma interdisciplinare, superando gli individualismi. Il suo fondamento teologico è l’accoglienza dell’umanità abitata dall’Amore trinitario, rivelato sulla croce e presente nelle pieghe e nelle piaghe della storia (papa Francesco, 21.06.2019). Questo nuovo paradigma può contribuire a segnare un passo avanti sulla via che conduce a trasformare l’hostis (nemico) in hospes (ospite), operando un cambiamento deciso nelle relazioni tra le persone e nei rapporti tra le religioni e le culture. L’accoglienza è fare spazio all’altro riconoscendovi una Presenza che risponda alla propria ricerca di senso e di vita piena. 

Praticare la teologia dell’accoglienza presuppone il Vangelo della misericordia, l’ascolto della storia, la libertà teologica nella sperimentazione di strade/modi nuovi di accogliere e di strutture leggere e flessibili. Accogliere significa aprirsi al mistero della presenza e dell’agire di Dio nell’altro, sorprendente in quanto ‘simile a me’ assai più di quanto sembri, e insieme ‘diverso da me’, più di quanto pensassi; di una differenza che non va ridotta ma illuminata. 

Di solito è la paura del nuovo che impedisce di essere accoglienti nei confronti dei passaggi di Dio. Spesso gli interventi salvifici di Dio sconquassano gli schemi mentali e i piani preesistenti: anche e soprattutto quelli religiosi.

L’accoglienza è, come abbiamo ricordato, la relazione che permette la vita: l’essere umano è affidato alle cure responsabili di un altro essere umano, senza le quali non sopravvive! L’essere umano non è “gettato nel mondo” (Sartre), ma ‘accolto’ nel mondo; vive solo se è accolto e se impara ad accogliere responsabilmente per diventare ‘umano’. Il paradigma dell’accoglienza contraddice esistenzialmente quello dell’autosufficienza che è prevalso nel nostro Occidente: il primato della recettività e dell’accoglienza sull’autoaffermazione e sul possesso, la centralità del gratuito, del riconoscere e restituire. L’accoglienza-ospitalità prima di essere atteggiamento morale è una diversa visione dell’uomo, del mondo e di Dio.

Il senso dell’umano è lo spazio ospitale, come un grembo materno anteriore alla intenzionalità conscia. Il principio ‘accoglienza-ospitalità’ provoca a ripensare l’umano, il divino e il creato all’interno del “tutto è in relazione”: l’agire dell’uomo è per la cura del creato e delle creature. L’accoglienza-ospitalità non è una cosa tranquilla: è sempre uno s-confinamento che contraddice ciò che comunemente si pensa, ma proprio nel contraddirlo si rivela fecondo di novità. 

È impossibile essere veramente felici se non si punta alla felicità di tutti. Occorre pertanto essere una presenza ospite (nella lingua italiana ospite è sia chi dà sia chi riceve ospitalità) che non si oppone ma si fa vicinanza, accoglienza, ospitalità, gratuità, sul piano personale come su quello sociale, offrendo al mondo ragioni di fiducia e rigenerando i luoghi in cui questa nuova fiducia può radicarsi e dare frutti.

L’accoglienza vissuta fino in fondo appare una sorta di paradosso, dato che non si può sapere se si accoglie un amico o un nemico. Colui che accoglie si assume sempre un rischio, poiché non sa in anticipo chi sta per accogliere, chi è quest’ospite che si presenta a casa sua all’improvviso (rischio di cui rimane traccia nelle nostre lingue indo-europee, per le quali hospes [ospite] e hostis [nemico] hanno la stessa radice linguistica). L’accoglienza è orientata verso l’incondizionato, accettando fino in fondo di essere vulnerabile.   

Fede e accoglienza sono due facce della stessa relazione: la fede si fa accoglienza e l’accoglienza suscita e verifica la fede della Chiesa e nella Chiesa, come vedremo meglio nel prossimo contributo. 

 

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